TUNISIA: ABBIAMO SRADICATO (DI NUOVO) I GELSOMINI

Qualche anno addietro firmai un appello per la cessazione delle violenze contro i luoghi di sepoltura dei sufi, in Tunisia. Potenza della sorveglianza o della repressione, quell’appello si disperse nel mare del web, ma aveva un lato incredibilmente positivo. In uno Stato compattamente e lecitamente sunnita, esisteva una opinione pubblica (o una porzione d’essa) in grado di mobilitarsi per i diritti altrui. E non faceva particolare notizia: fosse avvenuto altrove, tutti avrebbero strabuzzato gli occhi.

Per ovvie ragioni di prossimità geografica, una crisi politico-economica in Tunisia determina facilmente un flusso di persone verso il continente europeo e l’Italia in particolar modo. Tunisi e Palermo distano in linea d’aria circa duecento chilometri in meno di quanto distino tra loro Roma e Milano. La stessa Milano è più vicina a Tunisi che a Berlino, figurarsi a Londra. Va, ancora, notato che questa artificiosa sorpresa verso i migranti tunisini suscita molte perplessità metodologiche: fino al 2022, il racconto comune ci suggeriva che le principali comunità migratorie in Italia fossero quelle maghrebine (e invece i gruppi più cospicui venivano persino da – molto – più distante). Se fino a ieri ci siamo raccontati di esser pieni di donne e uomini tunisini irregolarmente presenti in Italia, come mai stupircene oggi, mentre sono davvero in aumento, e comunque molto lontani dal rappresentare un’emergenza numerica ancora inesistente?

La Tunisia è divenuta una repubblica presidenziale con un discusso referendum, tenutosi la scorsa estate. Di presidenzialismo democratico, secondo i dettami del costituzionalismo, c’è però poco: la presidenza di Saied ha anzi approfittato per rinsaldare i legami coi propri fedelissimi e accentrare i poteri. L’operazione ricorda preoccupantemente la riforma dell’ordinamento militare in Egitto: sulla carta un passaggio normativo meramente istituzionale, nei fatti l’arrivo di una ondata repressiva. Pur essendo stata per oltre trent’anni una repubblica socialista monopartito (dal 1956 al 1987, ma, invero, in varie forme addirittura fino al 2011, perdendo solo l’originario carattere socialista e islamista), la Tunisia ha rappresentato per tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti d’America, passando per l’Europa e l’Italia, una cultura islamica riformatrice. In essa, l’emancipazione dal colonialismo francese avremmo forse preteso impiantasse una laicità da export, più che da combat, ma molti provvedimenti ci avevano consegnato un sistema amico dell’integrazione e dell’inclusione. Le norme codicistiche in materia di famiglia, l’abbozzo di una tutela nel diritto interno per le diversità etnico-religiose, la propensione a interagire con le grandi organizzazioni internazionali dei diritti umani …

Nel 2011, addirittura, si esplicitò, con la rivoluzione dei gelsomini, uno dei più alti e durevoli esempi delle Primavere arabe, una opinione pubblica molto più evoluta della sua classe politica, dirigista e conservatrice (all’epoca rappresentata da Ben Ali).

Abbiamo guardato a quei fatti di oltre dodici anni addietro in modo un po’ calcolato e molto calcolatore: occorreva un nuovo agente all’Havana delle rotte migratorie, un nuovo partner nelle esportazioni e nelle delocalizzazione, una testa di ponte per comprendere da un lato l’Africa (quella più a Sud, più ignota) e dall’altro i movimenti politici islamici (altrove più radicati e radicali). In Tunisia politiche e politici di nuova generazione hanno fatto una costituzione, hanno aperto la più parte di cariche pubbliche, si è avviata una legislazione sociale più laica – messa in crisi dal COVID prima e da una politica di contenimento approssimativa e dilettantistica, poi dalla crescita dei prezzi e infine dagli umori di una presidenza nata con ben altre premesse.

Voltarci dall’altra parte, innalzare muri e opporre barriere è solo la continuazione del disinteresse e dell’opportunismo con altri mezzi.