Molti Autori, soprattutto quando raggiungono una certa nomea, restano legati nella percezione collettiva ai temi chiave con cui si sono proposti alla discussione scientifica.
Per il filosofo Gianni Vattimo un ruolo del genere è stato sicuramente svolto dalla nozione, spesso equivocata, di “pensiero debole”. Per i (pochi) detrattori di quel processo elaborativo si trattava di un elogio del transitorio, dell’assenza di un legame forte con l’ontologia. Invero il tema era tutt’altro: come costruire l’inclusione proprio nel tempo in cui le tradizionali argomentazioni della forza e del suo uso sembravano -cosi non era affatto: mutavano, semmai- perdere il loro tipico radicamento universale.
Di Vattimo era poi nota internazionalmente l’attitudine a riproporre una lettura “dal vero” di classici come Heidegger e Nietzsche, in un certo senso strappandoli alla cornice radicalmente conservatrice che ne aveva connotato l’interpretazione diffusa.
Rievocare il filosofo non mette qui conto, anche perché molto altro si dovrebbe dire: i rapporti tra arti e scienze, la rilettura estetica dalla teologia alla post-modernità, l’icona e la tecnica, la ricerca della verità e il ruolo costitutivo della semiotica nei processi gnoseologici.
Serve piuttosto ricordare ora l’intellettuale e il peso delle sue asserzioni e posizioni in un quarantennio di vita civile che ha completamente ritematizzato il conflitto culturale, proiettando in modo inedito i suoi sviluppi sulle tradizionali libertà del costituzionalismo democratico (civili, politiche, sociali).
Vattimo arriva ad esempio al tema della tutela delle minoranze religiose in modo controtendenziale rispetto al famigerato dibattito mainstream. L’incontro con la confessione valdese non è tipicamente fideistico, ma di tipo culturale: in un tempo che rimuove la componente ecclesiastica e gerarchica dell’approccio religioso, ciò non vuol dire abolire la domanda etica nelle relazioni sociali. E il protestantesimo radicale (pre-riformato, difficilmente inquadrabile in istituzioni) dell’eredità valdese gli appare un modo saldo per evitare tanto la retorica pauperista quanto l’elogio pragmatico dell’utilitarismo. È un ritorno alla spiritualità che abolisce semmai il vincolo coercitivo iscritto negli ordinamenti religiosi. Non è un caso che la sua mai rinnegata posizione comunista -approfondita anzi negli ultimi due decenni di vita- si svolga in parallelo a una riscoperta del cristianesimo condotta senza guardare alla giuridificazione del diritto canonico, ma all’ermeneutica dell’exemplum di Cristo in una vocazione schiettamente interconfessionale. Gesù e il marxismo trovano in Vattimo senza retorica la possibilità di uno scambio culturale ordinato su un sistema ben preciso di significati: l’abolizione dello stato di cose presente. Nella storia del movimento operaio, la rivendicazione di libertà che gioca la sua partita a iniziare dal salario, ma per superare il salario come organizzazione della subordinazione alla produzione. Nel racconto evangelico, nel paziente sovvertimento del convenzionalismo etnico, letteralista, censitario: la solitaria predicazione nel deserto in alternativa a ogni forma ingiustificata di coazione.
Vattimo è intellettuale europeo testimone della transizione politica del continente: la sua opera contemporaneamente taglia e rappresenta il “diritto ecclesiastico europeo”. La possibilità stessa che la civiltà europea approdi a una regolazione indifferente e omologante della metafisica.
Al parlamento europeo, il comunista Vattimo finisce con un partito personalista (l’Italia dei Valori riunita dall’ex magistrato Di Pietro) nell’alleanza dei liberaldemocratici. E lì Vattimo fa esplodere da par suo una contraddizione in termini in quella operazione, un segno di malfunzionamento nella democrazia elettiva euro-unitaria.
È il periodo in cui tutti i non allineati al bipartitismo governativo di socialisti e popolari si raccolgono (benissimo accolti!) tra i libdem, anche quando in quei partiti non vi sia alcuna traccia del kit assiologico-costituzionale della liberaldemocrazia. Segnala un problema: se l’Europa non funziona come organizzazione politica e se a non funzionare sono i partiti immediatamente riconoscibili secondo i codici classici della partecipazione e dell’ideologia politica, a turno torneranno di moda partiti post-ideologici e cd. “Pigliatutto”. Aggiungono caoticamente pezzi per allargare un bacino di potere più che di diritti, di rappresentanza più che di rappresentatività.
Ieri è successo ai liberaldemocratici, poi a verdi e sinistra verde nordica, oggi ai conservatori: imbarcare dietro insegne illeggibili e confuse nuovi accoliti.
Dietro, Vattimo ben intuiva, un poco rassicurante comune denominatore: l’intolleranza per l’altro.
Come tutti i grandi pensatori, il filosofo torinese rifornisce l’immaginario di linee operative che sono costantemente a rischio di strumentalizzazioni altrui.
Tra anni Ottanta e Novanta, il pensiero debole non dispiaceva ai teorici della fine della storia nelle istituzioni giuridiche del liberismo: debole era però la soggettività individuale e collettiva, non il bisogno di opposizione alla situazione oggettiva!
E da circa un decennio il Vattimo di una visione postreligiosa del cristianesimo e di una rilettura intrinsecamente umanistica del comunismo non dispiaceva all’anticapitalismo di certa destra e certa sinistra. Senonché quelle abili soltanto a rivendicare il tradimento del popolo, per poterlo continuare a proprio comodo con argomentazioni populiste e securitarie, Vattimo all’opposto impegnato a vedere una via d’uscita positiva dalla crisi dei tempi.
La politica di Vattimo è insomma il contrario di quanto ci è detto: un cammino nelle minoranze per costruire alternative agli universali invalsi (retorici e particolaristici).
L’altro è il frammento di uno specchio che non ho ancora avuto in mano, non una domanda da cestinare.