Di Eugenio Nastasi
L’occasione di ascoltare in vivo la parola del prof Vito Teti, seguire il pensoso conversare sull’argomento “restare” e/o “partire”, vedere scorrere nell’immaginario il fenomeno della presenza/assenza di generazioni di calabresi, fino ai nostri giorni, fino al qui e ora, è stato un autentico dono.
Nella reclusione forzata del coronavirus, Vito Teti non ha sospeso il suo tempo, da studioso qual è ha scritto. Con questo libro, “La restanza” ci ha condotto lungo le grandi migrazioni e le piccole fughe dei gruppi sociali elementari come dei paesani di Calabria, elaborando una narrazione insieme vivace e puntuale, discorsiva e accademica, amalgamando memoria di sé e memoria storica, ricerca del dettaglio e combinazioni alchemiche di vicende paesane.
Non si dimentichi che Vito Teti è un antropologo e questo dato emerge con frizzante rappresentazione discorsiva esaminando cause ed effetti del fenomeno in oggetto, la “restanza” appunto, con l’aggiunta empatica dell’essere lui, l’autore del saggio, un “indigeno “, uno del posto.
Una scrittura, dunque, e un conversare che guarda con lente etnografica la stratificazione della cultura e, insieme, con l’urgenza di elevare a soggetto del discorso il personale riscontro sul campo.
Il dialogo interdisciplinare lucido e accorto, a me che avevo letto il suo lavoro, ha permesso di confrontare i piani narrativi e l’argomento, nelle sue declinazioni, si è animato di continuo, configurandosi nell’esigenza di guardare al passato con l’occhio del presente.
Lungo i tredici capitoli del libro la periferia e la città,la campagna e i centri urbani, la montagna e la costa, ovvero la geografia storica degli insediamenti nei luoghi abitati e, talora, abbandonati, nel leit motiv della “restanza” attiva o della partenza nostalgica, sono venuti decantando e svelando, infine, come scrive Antonio Prete, nel libro di cui ci occupiamo, “che la nostalgia del paese in realtà maschera la nostalgia del tempo che abbiamo vissuto in quel paese”. (pag. 77)
Mi viene da aggiungere una riflessione indotta dall’incontro: noi siamo “memoria”, siamo ognuno un sé esclusivo e nell’insieme dei pari, siamo emozioni e sensazioni, esperienza e percezione, siamo linguaggio e comunicazione, capacità sensoriale intellettiva, siamo creatività e originalità, siamo gli unici esseri viventi dotati di pensiero reversibile e siamo ancora persone, amici e compagni, relazione e socialità che, nell’insieme, ci spinge a convivere in un luogo, in una contrada, in un paese; “siamo costitutivamente il luogo che percorriamo. Scrive Fulvio Librandi : ” È come se le tracce emotive, che il corpo conserva come una sapienza implicita, trovassero modo di riaffacciarsi alla coscienza nella forma di un passaggio che può essere restituito solo con il concorso di tutti i sensi”. (pag. 74)
Fin qui l’occasione offerta in uno dei capitoli più personali del testo, “La casa ovunque”, che Teti conclude lapidariamente: “…In fondo, la mia casa è ovunque, è qui, è memoria, è esilio”.
Non ho la pretesa di esaurire il contenuto di questo bel lavoro, ho seguito alcune suggestioni letterarie a me care ( Pavese, Chatwin, Proust) solo per rimarcare che l’antropologia culturale, situandosi ad un crocevia di svariate discipline scientifico/ filosofiche, storico/letterarie, contribuisce a definire una volta per tutte, la complessità come strumento di interpretazione e valutazione della realtà. Da qui, come bene interpretato dal nostro Autore, la scrittura etnografica accoglie, magari riducendo il suo portato esclusivo, accensioni provenienti da suggestioni poetiche. Tante, infatti, le visitazioni letterarie che Teti riporta, ma al di là di tutto a me è piaciuta la passione viscerale trasmessa dal suo linguaggio antropologico e letterario e anche la dimensione relazionale ( la calabritudine) cercata da vero ricercatore, il suo prestarsi ad accompagnare gli astanti verso i gangli etnografici con la parola piana e convincente, l’ethos degli autori di razza, con il leggero peso degli esempi del suo trascorso vissuto, quando ci ha insegnato il valore di termini quale pietra, pane, casa abitata, muri screpolati, quando ha accolto il non secondario valore del “sacro” di un paese, come strumento vivo di ogni discorso scientifico da divulgare, perché ogni rudere o casa o paese, ogni luogoabitato comunque serba un quotidiano che, in quanto vissuto, può divenire stimolo di vita futura.