Il 27 gennaio di ogni anno, a partire dal 2000, si celebra il “giorno della memoria” per commemorare le vittime dell’Olocausto. Ma cosa, a distanza di tanto tempo (le leggi razziali fasciste sono del 1938) è bene che la nostra mente non dimentichi. Certo, l’orrore dei campi di sterminio, quello dei treni con a bordo “la merce dei rastrellamenti” (il “binario 21” della stazione centrale di Milano: luogo simbolo da cui partirono le deportazioni naziste verso i campi di concentramento), i racconti dei sopravvissuti, i messaggi di tanti politici e delle istituzioni pubbliche, la mobilitazione delle scuole, i seminari nelle Università, i momenti di riflessione in comune all’interno delle associazioni, delle comunità di fede e da parte di semplici cittadini. Insomma, l’elenco delle cose da “non dimenticare” è lungo e bene si fa a ribadire ogni anno che l’esercizio della memoria è fondamentale se non vogliamo che la Shoah – come ha detto Liliana Segre – diventi quanto prima “un rigo nei libri di storia” e poi nulla più. C’è però qualcosa di particolare che serpeggia in forma crescente nelle pieghe della società del presente e che si dimostra capace di aggredire dalle fondamenta le basi della democrazia: la sfiducia verso le sue istituzioni, a tutti i livelli, dal locale al globale. Se queste lacerazioni che aggrediscono il tessuto sociale non vengono ricucite e sottoposte ad un lavorio rinvigorente, non è possibile escludere che la condizione di nuove “minoranze” precipiti nello spazio indistinto della dimenticanza, e da questo il passo verso la ghettizzazione è breve. Insomma, la Shoah non deve servire soltanto a ricordarci cosa patirono gli ebrei a cavallo degli anni ’30-’40 del secolo scorso, in Italia e altrove – e cosa rischiano ancora oggi di fronte al riemergere di nuove forme di antisemitismo e di razzismo culturale e religioso – ma anche qual è il profilo del nuovo vento dell’intolleranza, che al precedente rigetto anti-ebraico assomma nuove e più contorte forme di esclusione dallo spazio pubblico di persone e comunità la cui esistenza non sembra meritare, in alcuni contesti – anche formalmente “democratici” – ciò che la Costituzione considera il valore più importante riferito alle persona umana: la dignità.