Sono semplicemente onorato di partecipare alla presentazione del libro del prof. Berlingò insieme a tanti amici e colleghi, che saluto con affetto. Avere la possibilità di celebrare un maestro del diritto come Salvatore Berlingò, partendo da una sua opera che raccoglie scritti recenti di vario genere – tutti accomunati, però, dal medesimo afflato verso quello che lui chiama lo “sviluppo della democrazia” – mi offre anche la possibilità di rimarcare (sebbene in poche battute) l’importanza che rivestono alcuni attori pubblici, non solo accademici in senso tecnico, nell’opera di sensibilizzazione sociale verso temi complessi, come quello del “pluralismo religioso” e culturale, all’interno di spazi geografici e istituzionali ben precisi.
Questo spiega la mia presenza a questo incontro – e ringrazio il prof. Berlingò per avermi invitato – oltre che come studioso delle tematiche afferenti alla rilevanza giuridica del fattore religioso nella società multiculturale, anche come Presidente di una Associazione, LIME (Laboratorio Interculturale Mediterraneo Est) il cui fine è quello di osservare (e fare proposte), da un punto preciso dell’Europa del Sud, la Calabria, e in particolare la Sibaritide (dove LIME ha sede e opera) il modo come si va ridefinendo l’ “identità” di questa porzione specifica di territorio calabrese all’interno di quel “mare Amoroso” – come lo definisce Berlingò – che è il Mediterraneo (p. 263).
LIME ha deciso di svolgere un’azione di ricerca, di formazione e di collaborazione con le tante realtà che nella Sibaritide e in Calabria provano ad affrontare le problematiche di ordine teorico e pratico che si vengono a determinare nel momento in cui un contesto sociale si confronta con qualcosa a cui non riconosce una “immediata prossimità o familiarità” [L. Acone, Interletteratura: coordinate pedagogiche, in M.L. Albano (a cura di) “Lo straniero che è in te, Atti del progetto didattico. Le giornate dell’intercultura”, Delta 3 edizioni, Grottaminarda (AV), 2022, p. 15).
Stiamo parlando di ciò che succede quando l’immigrazione entra nel territorio statale, e del diverso impatto che l’immigrazione di stranieri determina a seconda del territorio di riferimento.
I contesti dove si viene a stabilire il contatto e il mescolamento tra migranti e popolazione autoctona non sono realtà identiche tra loro. In pratica, “nonostante tutte le tendenze omologanti” prodotte dalla globalizzazione, lo spazio sociale risulta “scolpito dalle storie che lo costituiscono” e questo si riflette sulle dinamiche di interazione tra popolazione residente e immigrati, generando condotte che non sempre producono quel “consenso per intersezione” frutto cioè di pratiche dialogiche e di regole “equamente condivise e di continuo riviste” a cui fa riferimento il prof. Berlingò (pp. 3; 8).
Dal punto di vista di chi vuole cimentarsi con la sfida delle diversità (e della inclusione di queste diversità nella trama costituzionale della solidarietà) la conoscenza del territorio in cui si opera rappresenta una premessa necessaria, senza la quale diventa difficile immaginare di poter concretizzare azioni e progetti finalizzati a dare vita ad una integrazione lineare rispetto ai valori e principi contenuti nella Costituzione. Nello stesso tempo “questo” territorio di riferimento si riflette in qualcosa di più vasto; e per noi di LIME questa vastità non è altro che quel “Mare Amoroso” (di cui si diceva prima); “mare senza interruzione”, dove – per usare le parole di Braudel – “tutto si ricostruisce in una unità originale” (“Il Mediterraneo”, Milano, 1987, p. 9).
LIME intende perciò agire senza “eludere la concretezza del reale” (B., p. 4). Questa è l’unica strada praticabile, a mio avviso, se non si vuole fingere di confrontarsi con la complessità del tempo presente eludendo la “prossimità” tra realtà locali e sfera translocale (cioè, globale). La globalizzazione, infatti, implica una crescente interazione tra sistemi sociali locali e flussi culturali globali. Procedere per intersezione, dunque, significa lavorare sulla possibilità di creare “contesti nuovi” all’interno dei quali la mediazione tra diversità e risorse pubbliche locali (umane e materiali) si struttura offrendo ai non autoctoni modelli di accoglienza calibrati partendo dalle peculiarità dei luoghi e non sulla scorta di asettici protocolli calati dall’alto; spesso elaborati in assenza di dati concreti, ma al solo fine di colpire l’opinione pubblica con slogan ad effetto, oppure per continuare ad alimentare e perpetuare (tramite ingenti risorse economiche e storture normative) circuiti di potere autoriflessivi e, non raramente, purtroppo, anche penalmente rilevanti.
L’obiettivo di LIME è quello di provare a sistematizzare le dinamiche migratorie all’interno di percorsi responsabili e dialogici, di costruire una stabilità consapevole, di umanizzare spazi sottratti alla transitorietà e alla trama di certi programmi politici finalizzati solo a “riempire i vuoti” prodotti da altre migrazioni.
LIME lavora per accorciare le distanze tra le persone e i contesti sociali dove “migrare” sembra un destino inevitabile per molte persone, alla ricerca di una speranza a cui ancorare la propria esistenza. Riconoscere, perciò, chi si ha di fronte significa poter cantierare prassi e procedimenti di interconnessione antropologica organizzati sfruttando razionalmente gli strumenti e le risorse che l’ordinamento mette a disposizione degli enti locali per promuovere “(…) la coesione e la solidarietà sociale [e] per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona (…)” (art. 119, co. 5 Cost.).
LIME ha la sua sede operativa nella Sibaritide, uno dei territori calabresi dove maggiormente insiste la presenza di migranti per ragioni legate prevalentemente alla coltivazione e alla raccolta di agrumi. In questo territorio abbiamo deciso di aprire un cantiere dove la democrazia, come scrive il prof. Berlingò, possa essere “esperita (come) un sistema di civile convivenza governato dal diritto, inteso come l’insieme di regole prescrittive (…) equamente condivise e di continuo riviste, così che possano essere praticate e recepite (al pari dei “frutti del cedro del Libano”) dagli appartenenti al genere umano tutto intero” (p. 8).
La posta in gioco è alta: e non è solo una questione di risorse (che spesso ci sono ma vengono spese male o destinate a finanziare progetti inutili se non addirittura esiziali). La vera partita si svolge sul terreno più ampio della “governance interculturale”. Organizzare “l’alfabeto dell’accoglienza” [M. Ricca, Riace, “Il futuro è presente. Naturalizzare “il globale” tra immigrazione e sviluppo interculturale”, Dedalo, Bari, 2010, p. 21) significa, infatti, pianificare l’ospitalità nel perimetro legale di un modello di cittadinanza che non può essere centrata sulla distinzione tra ciò che è dentro (il confine) e quello che ne resta fuori; oppure tra ciò che sta in alto e ciò che sprofonda nell’abisso delle ombre. I territori devono diventare i luoghi dove sperimentare politiche di inclusione, dove provare a sconfiggere, attraverso la leva della fiducia [T. Greco, “La legge della fiducia. Alle radici del diritto”, Laterza, Roma-Bari, 2022], la paura del diverso e dove scoprire che le differenze costituiscono una ricchezza.
Parlo di sperimentazione perché l’esperienza ci insegna che la dimensione simbolica (anche quella religiosamente connotata) all’interno dello spazio multiculturale diventa una problematica da gestire nel momento in cui l’alterità culturale viene privata di ciò che all’uomo comune viene riconosciuto proprio in quanto cittadino. La negazione dei diritti – di quelli sociali in particolare – rappresenta, infatti, la causa prima del rigurgito identitario di molti immigrati, specie di nuova generazione. Ecco perché l’incapacità del sistema istituzionale di farsi responsivo davanti alle richieste di maggiore cittadinanza avanzate dalle comunità di origine non italiana può facilmente alimentare l’impronta identitaria anche attraverso manifestazioni pubbliche eclatanti. E niente più della religione è in grado di fungere da fattore di accelerazione delle varie situazioni di disagio causate dalla incapacità delle amministrazioni pubbliche di assicurare pari dignità a tutte le persone (art. 3, co. 1 Cost.).
Omettere, perciò, la “casella della religione” (Ricca, op. cit., p. 100) dalle politiche di integrazione, come spesso si tende a fare per scarsità di cultura storica e antropologica, sarebbe un errore non solo di calcolo politico, ma di indifferenza giuridica verso un formante fondamentale della costruzione di un modello di società laica e pluralista. Quest’ultima, seguendo il ragionamento del prof. Berlingò, ha bisogno degli “stimoli provenienti da ordini normativi, come quelli religiosi” (p. 76). E ciò vale, soprattutto, all’interno di quei contesti, come quello della Sibaritide (e della Calabria in generale) dove è forte la presenza di tradizioni religiose diverse e dove maggiore si sente la necessità di rigenerare l’azione del potere pubblico (e del diritto), muovendo dagli anelli più periferici della società.
Occorre, allora, costruire un modello di governo policentrico dei territori, un sistema di relazioni orizzontali in grado di produrre e alimentare quote crescenti di capitale sociale e di accrescere – parafrasando Don Milani – la possibilità di uscire insieme dal gorgo dei problemi.
Questa calibratura “dal basso” delle interconnessioni identitarie, modulata dai territori in ragione del maggiore grado di prossimità ai bisogni e agli interessi delle persone e delle comunità facenti capo a culture diverse non deve rimanere una condizione a sé stante, statica, perché questo significherebbe erigere recinti politici a loro volta forieri di ulteriori problemi di natura innanzitutto comunicativa oltre che giuridica. Significherebbe perciò replicare su scala locale (territoriale) quello che avviene su scala internazionale dove la gestione degli sbarchi dei migranti e l’apprestamento dei soccorsi di prima necessità diventano motivo di conflitto tra stati, di scarico di responsabilità e non di gestione in comune del medesimo dovere di solidarietà.
La governance territoriale delle questioni pratiche attinenti alla conformazione multiculturale dello spazio pubblico si legittima soltanto nella maggiore capacità di “tagliare su misura” l’abito dell’accoglienza tenendo a stretto contatto il soggetto o il gruppo interessato con le istituzioni di riferimento impegnate a definire i processi di partecipazione politica. Ma questa operazione di “sartoria antropologica”, che include, per essere concreta, paradigmi normativi di carattere sempre più partecipativo e negoziale (B., p. 61), ha bisogno pure d coltivare una speranza, di “sconfinare”, di mantenere cioè vivo il collegamento con la dimensione più ampia del quadrante multiculturale (sebbene territorialmente concluso), perché questo serve a declinare meglio la trama di un linguaggio politico e giuridico interculturale mettendola al riparo da qualsiasi tentazione xenofoba, attiva sia nelle grandi metropoli, sia nei piccoli borghi delle province padane o del Sud Italia.
LIME intende contribuire all’apprestamento di una ermeneutica della mediazione finalizzata a non lasciare “in sospeso” le identità culturali che si trovano a interagire (per scelta o per destino) con le istituzioni del territorio dove ha deciso di operare.
Coerentemente con quanto scrive il prof. Berlingò, LIME lavora per stabilire processi comunicativi diretti a favorire la contaminazione oltre che l’interlocuzione delle parti in causa, facendo “prevalere le ragioni dell’equità (o, se si preferisce, della simmetria) rispetto a quelle dell’iniquità (o asimmetria) sociale” (B., pp. 64-65). Una mediazione, perciò, che preferisce non raccogliere l’invito a tavola di chi (attore istituzionale di qualsiasi tipo e/o livello) concepisce questa possibilità soltanto come l’occasione per lasciare le cose come stanno (dunque aggravando la condizione di chi già patisce i riflessi delle diseguaglianze) o per incamerare nuove risorse economiche senza alcuna reale prospettiva di “avanzamento o trascendimento personale e sociale” (B., p. 66).
La mediazione a cui LIME guarda con attenzione è quella che il prof. Berlingò chiama “trasformativa” (p. 67) perché questa – come viene ben spiegata nel suo libro – esalta la “prossimità” tra interlocutori e valorizza la dimensione interculturale che sprigiona dal saper “proiettare senza tregua all’esterno e nell’oltre le proprie memorie” (B., p. 243). Così è stato, ed è, per L’Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria, di cui il prof. Berlingò è stato Rettore, così può essere, … deve essere, nel suo piccolo, per LIME e le tante realtà di pari grado a cui stanno a cuore un cambiamento dello status degli attori, pubblici e privati, e delle loro relazioni … Grazie