di Domenico Bilotti
Nel discorso con il quale lo scrittore modicano Salvatore Quasimodo accettò il Premio Nobel per la letteratura, nel 1959, il grande intellettuale siciliano illustrò una nettissima linea di demarcazione tra i “poeti” e i “letterati”. I primi, secondo Quasimodo, praticano una “sconveniente” solitudine, attraverso la quale l’estraneità ai privilegi del potere consente loro di comunicare immediatamente contenuti ai lettori. I secondi, all’opposto, usano la loro erudizione per giustificare gli abusi, stabilendo di cosa sia utile parlare e di cosa meno, nascondendosi dietro una parvenza pretenziosamente acculturata. Istituiscono priorità per occultare problemi. Prendono il microfono per escludere la partecipazione.
Non è un caso che, nell’Italia dell’immediato dopoguerra,Quasimodo avesse dato alle stampe un intelligente volumetto sul tema della solitudine nel grande poeta giurista del Trecento italiano (Francesco Petrarca). La solitudine che vedeva in Petrarca era quella osservazionale, la profondità di sguardo che sola suscita una previa, meditata, immersione nella concretezza dell’agire, nel dovere di fronteggiare i mali, ciascuno coi propri fallibilissimi, e perciò umanissimi, strumenti.
È inevitabile pensare alle considerazioni di Quasimodo sul metodo dell’analisi e sulle sue implicazioni collettive accostando il recente lavoro di Salvatore Berlingò, “Pluralismo religioso e democrazia transculturale. Prove di transizione dal privilegio al diritto”, per i tipi delle Edizioni Scientifiche Italiane (Napoli, 2022). Non si tratta di scritti d’occasione, ma di una paziente tessitura antologica, che copre almeno cinque anni di stesura testuale nel dibattito scientifico italiano e internazionale e che soprattutto porta a nuove, quanto solide, traiettorie un ben più lungo itinerario di studi e di riflessioni. Viepiù, la raccolta, nonostante la puntuale indicazione delle fonti di prima apparizione ed elaborazione dei materiali presenti, assume, pagina dopo pagina, un robusto e strutturato respiro di riflessione tematica unitaria. Da qui, del resto, l’opportuna titolazione: vivere l’esperienza del pluralismo culturale e confessionale in una fase di profonda transizione critica nello strumentario giuridico degli ordinamenti costituzionali democratico-repubblicani.
Il primo saggio, “Dalla giustizia della carità alla Carità della Giustizia. La critica a una teoria kelseniana (e non solo)”, assume coerentemente il significato di introduttore alla tematica. L’Autore ritiene che la caritas dell’elaborazione culturale religiosa sia un marcatore di scopo in grado di assurgere a norma normans e dell’essere e del praticare giustizia: un dato di fondo molto diverso dalla astratta filantropia del capitalismo secolare o dalle pretese autoreferenziali, talvolta assunte dalle esperienze del religioso, per affermare un welfare per seguaci, e non relazioni dialogiche. In questo senso, un’economia iniqua quanto un fondamentalismo religioso antipluralista non sfuggono al vero limite dei diritti corporativi: la costante riproduzione di meccanismi di esclusione “noi” / “loro”.
Opportunamente riecheggiando il magistero intellettuale del giusprivatista Angelo Falzea, l’A. commenta, in altra parte del volume (p. 73), che: “al riguardo non deve, tuttavia, trascurarsi l’autorevole avvertenza di chi segnala la tentazione del potere politico di tradursi in potere personale e dunque arbitrario; un esito che solo una dotazione etica di superiore livello può scongiurare”.
Appena cento cartelle oltre, nell’emblematico lavoro “Laicità all’europea?” (p. 173), col giusto inserto di un interrogativo finale, la prospettiva del testo rivela appieno la sua fondatezza: “non rinunciare alla distinzione degli ordini (politico-culturale vs. fideistico-religioso) per mantenere realmente dia-logica e/o trasformativa la (loro) complementarità”.
Berlingò, immergendo il suo iter argomentativo nel dovere di praticità che contemporaneamente deve assistere la scienza del diritto quanto persino sul piano personale lo sguardo dell’interprete, non eleva pretestuosamente i cospicui risultati di indagine a manifesto politico. A questa concretezza dà programmaticamente voce almeno due volte nel volume, ricordandone la costitutività nella cultura mediterranea e sezionando le suggestioni neoanalitiche del pragmatismo anglosassone di nuova generazione. Si apprezzano allora i contributi che analizzano l’emersione dei conflitti culturali sul doppio binario delle fonti del diritto e delle giurisdizioni civili (“Dalle origini di una disciplina, alcuni spunti di prospettiva”, pp. 89-104 e soprattutto pp. 100-102; nonché, e a fortiori, “Laicità all’europea nel dialogo fra le Corti”, pp. 195-211). Mappe preliminari di una nuova sensibilità metamorfica nella legislatio e nella jurisdictio de libertate, che non cedono alle (ir)risolte retoriche della tutela “multilivello dei diritti” – meccanismo complicato che esprime una sua raffinatezza giuridica ma che non sempre considera le angosce incombenti sul ricorrente in carne e ossa – o delle alternative dispute resolutions, forme di conciliazione prelitigiosa che però funziona se e in quanto vi si amministra l’equità nella soddisfazione corrispettiva degli interessi esistenziali.
Berlingò piuttosto propone attenzione alle corti internazionali, ai loro rapporti non solo sotto il profilo delle competenze statutarie o delle composizioni istituzionali, al tentativo delle “terze parti private” (associate o meno che siano) di agire la partecipazione procedimentale non in modo dilatorio o, peggio, predatorio, ma per suggerire al giurista l’esistenza di una voce di giustizia che formula domande e spesso non riceve risposta alcuna, se non parziali, consolatori o denigratori, rimbrotti di comodo e guizzi teorici scollegati dal reale.
Con rinnovato spirito di socialità – proprio come il poeta di cui parla Quasimodo a Stoccolma – chiudono il volume “Dialogo interculturale e minoranze religiose in Europa al tempo del Coivd-19. L’apporto degli ecclesiasticisti” e “Per una equa mondializzazione delle periferie nelle società plurali”. Il giurista, portandosi dietro la cassetta degli attrezzi che ha usato nell’aula (di tribunale o d’ateneo), si abbevera alla sofferente vitalità del tempo presente, scandito da un emergenzialismo mal orchestrato quanto da una temperie migratoria inidonea a garantire i più elementari diritti umani.
È l’asset, materiale e immateriale, del locus Mediterraneo a dare ancora una volta il nerbo e la speranza: “l’emblematica molteplice eccentricità o perifericità di alcune zone del Meridione d’Italia, nell’esatto opposto di una plurima centralità” (p. 235).