Di questi abitanti silenziosi, segnalati dai tanti “visitatori” che hanno attraversato le terre calabresi da epoche remote al presente globale, poco si è detto e molto poco si è scritto. La Calabria è una regione che può rivendicare con orgoglio i suoi 468 mila ettari di bosco (dati dell’Inventario Nazionale delle Foreste), a fronte di una diffusa inconsapevolezza attorno a questa ricchezza ecologica che, malgrado tutto, tiene in vita un corpo sempre più in sofferenza.
Dal Pollino all’Aspromonte, passando per la Sila e le Serre, queste meravigliose distese di vario colore e grandezza, parlano una lingua sconosciuta, quella del silenzio. Una lingua a volte levata in alto dal vento, che per essere colta nella sua intensità, richiede una predisposizione di cuore, una postura elevata; solo così si potrà cogliere l’antropologia che la anima e la rinnova, che cambia insieme ai linguaggi, alle tradizioni, ai riti.
Le foreste e i giganti che dimorano nelle foreste calabresi rappresentano i contorni di una rete di strani e misteriosi “intrecci”, che spesso la mano diabolica dell’uomo mette a repentaglio, spargendo fiamme e disperazione, ma che, nello stesso tempo, spinge alcuni “salvatori” a custodire con le armi della corporeità e della parola, in tutte le stagioni, nutrendo di dialoghi e rappresentazioni l’immaginario pubblico.
LIME ha pensato di chiedere a Francesco Bevilacqua, scrittore, camminatore e autore di “Alberi monumentali in Calabria. Con una storia delle foreste calabresi” (ed. Rubbettino) di raccontare qualcosa di queste meraviglie e di svelare il mistero che si nasconde tra le pieghe delle loro imponenti radici, con lo sguardo sul presente.
D. Francesco, cosa ti ha spinto a scrivere un libro sugli alberi monumentali in Calabria?
R. Come calabresi sappiamo poco o nulla di tutto ciò che riguarda la Calabria: non solo delle foreste o del paesaggio, ma anche della cultura, della letteratura, della storia, della geografia, dei problemi, dei tanti luoghi che compongono quel caleidoscopio, quel “vestito d’Arlecchino” – come disse Giuseppe Isnardi – quell’incredibile puzzle di colori, sapori, tradizioni, visioni, modi di concepire il mondo che è la Calabria. E questo vale per gran parte del Sud Italia. È la conseguenza – come intuirono Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini e Giuseppe Berto – del complesso psicoanalitico di inferiorità collettiva della civiltà contadina del Sud rispetto a quella industriale del Nord, che travolse le comunità meridionali soprattutto nel secondo dopoguerra. Fu così che i nostri “tesori”, che provenivano tutti dall’”antico”, si trasformarono in “niente” ed i calabresi si ammalarono di “amnesia dei luoghi”. Ecco, le foreste e gli alberi monumentali sono un caso eclatante: tesori trasformati in “nemici”, perché ci ricordano un passato che nell’immaginario collettivo è fatto di miseria e sofferenza. E’ tempo di risolvere i nostri complessi. Dobbiamo diventare adulti, assumerci le nostre responsabilità. La memoria è l’unico viatico possibile per il futuro: nessuna attività culturale o economica attecchirà stabilmente in Calabria se non parte dalle reali vocazioni dei luoghi, dalle identità molteplici, aperte e plurali di una regione che è un vero e proprio crocevia in mezzo al Mediterraneo. Mi è parso che le foreste e gli alberi monumentali della Calabria – al di là del mio amore verso la natura e la cultura di questa regione e la voglia di farle conoscere innanzitutto ai calabresi – rappresentino bene questa idea. Gli alberi sono dei simboli straordinari: hanno radici ben piantate nella terra (la memoria), un tronco (il presente) attraverso il quale la linfa sale verso i rami che producono frutto (il futuro). Un albero a cui vengono recise le radici non è in grado di produrre più frutti.
D. Cosa ti affascina di più quando attraversi le foreste calabresi?
R. Ci sono due dimensioni diverse ma complementari dell’andar per boschi. La prima è quella interiore. Mircea Eliade, il grande storico delle religioni, ha dedicato un intero capitolo del suo famoso trattato, ai culti degli alberi e della vegetazione (nel libro dò conto dei relitti di questi culti in Calabria). Gli alberi sono creature dalle quali promana il sentimento del sacro, così raro oggi da reperire nelle nostre vite urbanizzate, nelle nostre mentalità neoilluministe che vorrebbero ridurre tutto il reale a ciò che è calcolabile, misurabile, sperimentabile. Per l’uomo dell’antropocene non c’è più spazio per il mistero. Quando penetro in una foresta – soprattutto se si tratta di una foresta monumentale, antica, “vetusta”, come dicono i botanici – provo un sentimento di “minorità” rispetto a quei giganti che vivono lì da secoli, apparentemente silenziosi ed immobili, che sfidano la gravità innalzandosi lentamente verso il cielo, che protendono i rami verso l’alto “come membra di oranti” (come lessi in una bella poesia che campeggia ancora in una stanza della Masseria Torre di Albidona, un luogo magico dell’alto Ionio calabro, circondato di boschi radi di pini d’Aleppo). Il mistero e il sacro sono due questioni decisive per il futuro della Terra e dell’Umanità: o dismettiamo le nostre illusioni antropocentriche e speciste o ci auto-estingueremo, dopo aver devastato il pianeta che ci ospita. L’altra dimensione è quella dello smarrimento. Dico sempre che solo smarrendosi si può trovare realmente la strada. Se seguiamo segnali sicuri non troveremo mai, realmente, la nostra strada. Nella vita di ciascuno di noi è necessario smarrirsi talvolta. Solo in quel momento cercheremo la via giusta con tutte le nostre forze. E quando l’avremo (ri)trovata potremo star certi che è la nostra via, non quella che altri hanno tracciato per noi. La foresta è un luogo di smarrimenti perché non hai visuali aperte, perché è difficile orientarsi. Una foresta è, dunque, il miglior banco di prova per chi vuol ritrovarsi.
D. Cosa pensi si debba fare per incrementare la messa in sicurezza delle foreste in Calabria?
R. Non vorrei essere pedante e rispondere con un elenco delle cose da fare. Nel libro ne parlo in abbondanza. Qui potrei dire alcune delle cose fondamentali dal mio punto di vista, che è essenzialmente culturale. Occorre capire che le foreste sono comunità di creature senzienti, come ha dimostrato la moderna neurobiologia delle piante, fra l’altro – e forse non casualmente – attraverso il lavoro di un botanico di origini calabresi, il prof. Stefano Mancuso. Questo ci consentirebbe di dismettere gli abiti della superiorità di chi si occupa di foreste solo economicamente. Qualcuno sostiene che le foreste hanno bisogno delle cure dell’uomo. Si sbaglia: sono gli uomini che hanno bisogno delle cure delle foreste. Basta pensare a quanto ossigeno producono le piante e a quanta anidride carbonica smaltiscono gli alberi. E poi, gli alberi vivono sulla Terra da 400 milioni di anni, mentre l’Homo sapiens da appena 200 mila. E’ vero che i boschi antropizzati possono e debbono essere tagliati in modo sostenibile. Ma questo significa che oltre a ricavare materia prima dai boschi bisogna anche trattarli come un capitale da accrescere e da cui prelevare solo una parte degli interessi. E’ un concetto che vale per tutte le risorse naturali della Terra ma con i boschi diviene facilmente evidente: un taglio insostenibile, un incendio boschivo rendono immediatamente l’idea della distruzione. A parte questo, c’è il serissimo pericolo, soprattutto in una regione come la Calabria, nella quale persiste ancora la mancanza di legame fra uomini e luoghi, che le foreste – che, come ho detto, sono la gran parte del paesaggio – vengano devastate per effetto della costruzione di nuovi parchi eolici e di centrali a biomasse. Ancor più in questo periodo in cui stanno per arrivare i finanziamenti del PNRR, con tante aziende multinazionali (e non solo) pronte a speculare su questa valanga di soldi. Occorrerebbe, invece, una politica premiale per chi – privati o enti pubblici che siano – conserva e tutela i boschi anche come presidi contro la desertificazione, l’eccesso di gas serra in atmosfera, il riscaldamento globale, il dissesto idrogeologico, i fenomeni metereologici estremi. In Calabria, inoltre, occorrerebbero politiche premiali locali verso chi vuol riconvertire i cedui in boschi d’altro fusto per evitare che i tagli ciclici dei cedui si trasformino in ferite per il paesaggio e per ottenere una maggior qualità di molte decine di migliaia di ettari di foreste. E c’è il problema degli incendi, rispetto ai quali, dopo i disastri dell’estate 2021, molto poco si è fatto: occorrerebbe una vera e propria rivoluzione, sia con riferimento alla prevenzione (rispetto dei divieti di accendere fuochi liberi in estate, sorveglianza del territorio) sia con riguardo allo spegnimento ed alla repressione (maggior coordinamento fra i soggetti preposti, rafforzamento delle squadre di Calabria Verde, tempestività degli interventi a terra, ripristino di stradine forestali e strisce taglia-fuoco etc.).
D. Ti preoccupa il modo come viene interpretata e gestita la foresta da parte di escursionisti e tour operator?
R. Mi preoccupa molto come viene gestito l’intero paesaggio da questi nuovi fruitori, che, negli ultimi anni, stanno aumentando sempre più. Ai benefici, anche economici, legati ad una maggiore conoscenza e ad un maggior presidio da parte degli escursionisti e dei turisti in genere, si registra la crescita di una fruizione esclusivamente ludico-atletica e, quando va bene, estetica delle montagne e delle foreste. Ma i paesaggi non sono trofei da mostrare sui social e da esibire come curricula per dimostrare quanto si è bravi. Occorre un nuovo approccio verso le cosiddette attività out-door, che sia volto ad una conoscenza effettiva dei territori, ad una frequentazione rispettosa di natura e cultura. In questo, come calabresi abbiamo un compito importante: oltre a guarire dal “coma topografico” in cui versiamo come popolo, anche le associazioni, le guide e gli accompagnatori dovrebbero sforzarsi di assumersi responsabilità verso i luoghi e raccontarli a 360 gradi ai loro soci, ospiti e clienti. Insomma, occorre che la fruizione diventi soprattutto etica e, perché no, anche spirituale. Parafrasando un grande alpinista Anatolij Burkeev potremmo dire: “le foreste non sono le palestre dove placo le mie ambizioni. Sono le cattedrali dove pratico la mia religione”.